Parliamo di Romeni
E’ di questi giorni la notizia che il Sindaco di Settimo ha dato casa a dei Rom romeni. Gente che nessuno vuole e di cui tutti diffidano.
Questo sentimento di avversione e timore verso i romeni è oggi assai diffuso tra la gente “normale” e, lo confesso, io stesso ogni tanto vengo preso da questo assillo. Certo, di primo acchito la decisione del sindaco sconcerta e indigna, ma poi qualcosa mi ha dato da pensare.
Una mia amica, romena di nascita, ma da tempo cittadina settimese, mi ha fatto leggere uno scritto sulla vita sua e dei suoi avi e in esso ho ritrovato la storia nostra di una volta e quella loro di adesso. E’ un pò lungo quel racconto, ma voglio proporvelo ugualmente.
Storia di emigranti
Nel lontano ‘800 l’Italia era molto povera e non c’era lavoro. Sui giornali comparivano inserzioni dove veniva richiesta mano d’opera per l’estero. Cercavano: contadini, muratori, scalpellini e via di seguito.
Tante famiglie, aiutate dallo stato, partivano per la destinazione prescelta.
I miei bisnonni andarono in Romania per lavorare nelle cave di granito, a fare gli scalpellini. Partirono da Belluno alla metà dell’ottocento, con i loro tre figli maschi, insieme a tante altre famiglie.
Arrivati in Romania li portarono ai piedi di una montagna dove c’erano delle lunghe file di case, tutte a un solo piano. Erano gli alloggiamenti provvisori per gli immigrati: una grande cucina e una grande camera da letto. Davanti alle case c’era una distesa di ettari ed ettari di terra libera, deserta ed incolta.
Le autorità di allora, prima che le famiglie prendessero possesso delle abitazioni, resero noto una particolarità della loro legge : chi voleva costruirsi una casa per proprio conto, perdeva la cittadinanza Italiana e diventava Romeno a tutti gli effetti.
Le famiglie si informarono subito sulle condizioni di vita in generale, sulla sicurezza del lavoro e alla fine parecchie decisero di mettere le radici lì.
I miei lo fecero e, con i primi guadagni, comprarono un appezzamento di terreno di qualche ettaro. Col tempo lo divisero tra i tre figli, che a loro volta fecero ognuno la loro casa, formando così tre grandi famiglie.
In una di queste nacque mia madre, romena, di nome Regina Elisabetta. Mio padre, nato a Torino da padre torinese e madre francese, emigrò anche lui alla fine della prima guerra mondiale, dopo aver letto un’inserzione sul giornale dove cercavano scalpellini per la Romania.
Da tutte le regioni d’Italia si presentarono un centinaio di ragazzi che partirono tutti insieme. Anche mio padre arrivò i questo piccolo e sperduto paese: dieci chilometri di foresta lo separava dalla Russia e quaranta chilometri dal Mar Nero. Lì conobbe mia madre e si sposarono. Nacquero cinque figli, io sono la quarta.
Gli uomini partivano per il lavoro alla cava al mattino, al buio e tornavano alla sera tardi, col buio, facendo a piedi diversi chilometri tra andata e ritorno.
La vita era molto dura per loro, ma molto dura era anche quella delle donne:(…..) . Avevamo la fortuna che per sopravvivere non ci mancava nulla. I soldi che guadagnavano gli uomini erano pochi e servivano soprattutto per la provvista di legna necessaria per tutto l’anno, per i sacchi di farina necessaria per fare il pane e la pasta, per la farina di mais per fare la polenta e tante altre cose utili di cui necessita una famigli numerosa.
Mia mamma lavorava sempre tanto: d’inverno ci faceva i vestitini e le pantofole, due paia per ciascuno, perché d’estate non aveva più tempo. Filava la lana delle pecore che aveva tosato e la preparava per l’inverno.
Io e le mie sorelle facevamo le calze per tutti. Ricordo che a sette anni anch’io avevo imparato a sferruzzare e man mano che crescevo imparavo a fare tutti i lavori, come i grandi. Non si stava mai in ozio.
Il lavoro però non ci pesava, noi ragazzi lo prendevamo come un gioco. D’inverno gli uomini, dato che non potevano lavorare in cava per il freddo e la neve, aiutavano le donne ad accudire gli animali, tagliavano la legna, andavano a caccia, sempre in gruppo, perché c’erano tanti lupi. (…..).
Tutte le donne avevano dai cinque ai dieci figli e noi bambini, messi al mondo uno dietro l’altro, si può dire che crescevamo da soli, mai un bacio o una carezza. Tante volte sentivo mia mamma pregare il Signore che ci aiutasse a crescere bene, e grazie a Dio siamo sempre stati tutti sani e robusti. La vita di noi ragazzi è sempre stata spensierata. Ricordo che io feci un’infanzia bellissima fino ai dieci anni. Di sera e nelle giornate festive bambini e ragazzi giocavamo tutti insieme e ci divertivamo un mondo. Noi cugini eravamo in ventuno.(…..); era una festa continua, sempre tutti insieme.
I miei parenti e tantissime altre famiglie si comprarono un pezzo di terra e col tempo si costruirono le loro case, formando così una grande colonia italiana, pur essendo però tutti diventati romeni.
Sino all’anno scorso, se avessero dovuto venire in Italia, sarebbero stati extra comunitari. Oggi i miei parenti (e sono tanti), per trovarsi un lavoro, anche se mal pagato, sono tutti lontani dalle loro case, dalle loro famiglie, sono sparsi nelle grandi città, a centinaia e centinaia di chilometri di distanza. Per vedersi tra di loro passano anche anni, perché non hanno abbastanza soldi per pagarsi il viaggio.
Io sono una delle più fortunate, perché sono riuscita a venire in Italia.
Un giorno mio padre maturò l’intento di tornare in Italia. Era già un po’ di tempo che sentiva la nostalgia della sua terra e la mancanza della sua famiglia d’origine. Mia madre, preoccupata, gli disse che se veramente aveva idea di partire, era meglio farlo subito, perché i suoi figli li voleva portare tutti via con sè. Mia sorella, quella più grande, aveva quindici anni e siccome lì molte ragazze si sposavano molto giovani, la mamma aveva paura che si trovasse il fidanzato e che poi non volesse più partire.
Così presero la decisione, fecero i documenti necessari e dopo un mese partimmo.
Arrivammo in Italia nel 1936, su una nave mercantile. Navigammo per un mese; il viaggio è stato lungo perché la nave ad ogni porto si fermava per scaricare e caricare le merci trasportate e da trasportare. Ci fermammo nei porti della Romania, Bulgaria, Turchia, Grecia e Italia. Oltre all’equipaggio c’eravamo solo noi a bordo, eravamo gli unici passeggeri. (….)
Arrivati a Venezia, prendemmo il treno per Torino, verso il paese natìo di mio padre e verso il cambiamento totale della nostra vita.
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Questo è quanto ha scritto, il resto me lo ha solo accennato. Gli stenti e la miseria in cui hanno vissuto negli anni pre-bellici e bellici, li ho ancora potuti vedere nei suoi occhi, riviverli nella sua voce rotta mentre li raccontava.
Ora io non voglio fare il difensore d’ufficio dei romeni nè tantomeno dei Rom, ma questo racconto mi ha dato veramente da pensare, da fare dei confronti, degli accostamenti e delle domande.
I Romeni di allora accolsero i nostri meglio di quanto noi ora accogliamo loro? I nostri emigranti si comportarono meglio di quanto fanno loro ora?